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lunedì 30 marzo 2015



Il presente racconto è arrivato secondo al Premio Internazionale di Narrativa "ABICIZETA" 2011


di Roberta Orlando


È la più bella della città, forse è la più bella di tutto il Paese. La conoscono tutti, tutti la rispettano. Chi disprezza, poi, figurarsi: compra.
Le donne la invidiano. Quando la guardano storcono il naso e intanto si chiedono se quei vestiti le siano cuciti addosso o se quella donna abbia davvero le grazie di una dea qualunque cosa indossi.
È una questione di gesti, di movimenti. Del modo in cui porta i tacchi, del passo fluido, leggero, che mantiene, come se scivolasse tra la folla, melma da cui liberarsi e cercare di uscirne quanto più puliti possibili. E non se ne è mai troppo.
Lei è fatta così: può camminare nuda o sfoggiare l’abito da monaca, ma dietro di sé lascia sempre una scia di eleganza e sensualità. Ed è la sensualità di una madre, la madre di tutti, la sorgente di vita. Di gioia e di male.
O forse è una grinta di pura trasgressione, una ferita aperta, il sangue che piange su trascorsi malcelati, promesse infrante come vetri scheggiati; è la trasgressione di chi uccide e nel suo specchio trova mille riflessi. Può porsi in mille maniere diverse, può indossare una maschera differente per ogni giorno della sua vita, volto di ceramica costruito con sudore e dipinto a mano, ma in lei qualcosa non smette mai di abbagliare.
Gli uomini l’adorano. Un desiderio morboso, il più ossessivo tra tutti. Sono assoggettati alla sua bellezza, bacerebbero la terra su cui cammina, le leccherebbero la suola delle scarpe se solo lei lo chiedesse. E lei lo chiede, lo chiede spesso, con un sorriso che pretende tutto ma nulla vuole, e in quel momento esige che tu la guardi in faccia. Occhi negli occhi, l’eco lontano di un canto di note stonate, ultimo baluardo tra bandiere cadute.
Non devi mai perdere il senso della realtà, non con lei, devi guardarla in faccia, esser cosciente delle tue azioni, sentirle sulla pelle, in bocca, tra la lingua e il palato, là dove sei senza difese, rigirartele tra la saliva e poi ingoiare. Tutto. Perché tutto va giù, dentro ove anche la coscienza è buia, in bocca resta solo il sapore acre, sporco, ma poi anche questa è andata.
Così non ti perdi, così sei ancora te stesso, il tuo nome è ancora il tuo. Fosse l’ultima cosa che ti rimane ma quel nome è sacro, ti caratterizza e tu solo sai cosa significa. Ogni lettera è sacra, un crocifisso che non ha perso la sua fede.
E lei un nome non ce l’ha. O se lo ha, nessuno lo conosce. Forse l’ha pronunciato qualche volta, ma nessuno le ha creduto. Altri raccolgono le sue parole come oro colato e pensano che un giorno lei si chiami Vanessa, un altro ancora Maria, poi Jessica, poi Carlotta e poi chi lo sa.
Lei ha il nome che vorresti gridare quando ti rigiri nelle lenzuola, quando rientri nella tua quotidianità e ti ferisci pensando ai momenti di sogno che ti ha strappato e sbattuto in faccia, i cui contorni hanno ancora segni di graffi sulla schiena.
Lei ha il nome che mormori mentre con una mano ti appoggi alle piastrelle della doccia e con l’altra ti accarezzi e riscopri quei punti di te di cui non ricordavi sensibilità. Ti sfalda i nervi con attacchi violenti, sono colpi di cannoni contro pareti di carta le sue unghia.
Moriresti pur di sapere qual è il suo nome. Lo urleresti mentre ti muovi agitato, il corpo sudato, le membra tese fino allo spasmo. Le mani rigide ai lati di un cuscino, movimenti fluidi, più lenti, violenti. Veloci. Sofferti. Le palpebre chiuse e il suo volto davanti agli occhi. E sapere che stai rischiando, perché dopo di lei non può venire nessuno.
Lei è una tigre, quando la avvicini ferisce, graffia. Senti gli artigli lacerarti la carne, comincia con un tocco leggiadro, innocente all’apparenza, e ti prende quando meno te lo aspetti.
All’inizio è una pressione leggera, come una carezza, ma lei non conosce gesti d’amore. Così affonda, giù nel tuo corpo, ti penetra, dove sa che farà male, dove sa che ti segnerà. Perché lei ti vuole marchiare, vuole rovinarti, vuole farti capire cos’è il dolore e imprimertelo sulla pelle.
Quel dolore, sangue che scioglie grumi di altro sangue versato, è l’unica cosa che ti darà, l’unica che non dovrai pretendere, ma che ti regalerà il suo sorriso. E il tuo dorso si dipinge come una scacchiera dalle mattonelle rosse e bianche. Vita e morte. Avanza la regina, arrocca il re.
E rimani incastrato lì, tra la torre e la schiera di tre pedoni che ti proteggono, perché quando lei ti guarda negli occhi, quando ti sfiora al suo passaggio, per giorni non puoi avvicinarti più a niente, più ad un’altra persona. Restano i segni, restano le cicatrici e nessuno capisce quali sono le più profonde. Le tue, le sue. Le urla che hanno tagliato il vento quando eri troppo sordo per sentirle.
Non saprai mai quali faranno più male, quali si riapriranno quando ti piegherai sul dorso, le braccia strette al petto, gli occhi semiaperti velati dal ricordo di un momento di follia, un momento pagato come oro gettato. Forse non te lo potevi permettere, forse è sbagliato. E’ la cazzata che negherai anche in tribunale giurando sulla vita di tua madre e di tuo padre, le negherai tra le lenzuola quando pronuncerai un ‘ti amo’ vuoto, perché il tuo sguardo sarà troppo vigile e attento, per accorgerti della pienezza delle parole tra le tue labbra. La negherai a te stesso, ed è ironico, perché se devi proprio accompagnare i bimbi a messa, troverai da qualche parte la forza di farti il segno della croce. Ti assolvo, amen.
È questo l’effetto che fa. Lei devasta. Lo dicono tutti, ma non ci credi finché non provi. A volte è un bisogno, altre solo un gioco. Fai la tua puntata, poi non tirarti indietro.
Lei non lo fa. Non si ritira mai. Ti accoglie sulla porta sempre con una sigaretta in bocca, e il suo modo di portarsi la cicca alle labbra ti fa ribollire il sangue nelle vene, aguzzare lo sguardo, flettere la schiena in avanti. E’ un movimento impercettibile di cui ti accorgi solo quando realizzi di non poter smettere di fissarle la bocca, quella bocca che è peccato e acqua santa, è il canto della sirena che ti ucciderà, è l’urlo dell’angelo che si sacrificherà per te.
Non ti chiede niente. Lei non fa domande. Sa quello che vuoi, sa ciò che vuoi da lei, ma non è disposta a rivelarti i suoi di pensieri. Non cede, tergiversa con sorrisi ironici o commenti salaci. Altre ancora, le sue parole si perdono tra gemiti soffocati che hanno il suono di una poesia costruita con versi su versi sbagliati. Non una parola giusta in una sinfonia di urla soffocate.
Lei la conoscono tutti. Tutti sanno qual è l’odore della sua pelle, la profondità del solco tra i suoi seni. La conoscono da basso, conoscono le sue gambe accavallate, la curva del ginocchio, la flessuosità del polpaccio.
Impari il suo aspetto partendo dallo smalto nero del piedi, su ogni unghia un ideogramma dipinto in un grigio perla, forse cinese, forse coreano. Non ha mai svelato il significato. Magari qualcuno non glielo ha chiesto.
Poi la caviglia velata. Non si leva mai le scarpe: un paio di sandali dorati alla schiava, tacco dodici. Le slanciano la vita, le cosce. Il fondoschiena è quello di una dea greca. A seguire vengono le gambe, le cosce. Ha un tatuaggio vicino all’inguine. Delle lettere. Un nome. Della donna che ama, dice.
È una notizia che sconvolge, perché anche in certi momenti ti ricordi di morali, benché ben diverse dalla tua. Perché sei capace di scagliare la pietra anche mentre condannano la tua di lapidazione. È un mordi e fuggi, vince chi si fa meno male. E tuttavia nessuno esce mai veramente incolume. La guerra conosce solo vittime.
Ma a pensarci realizzi che è giusto, che non può esserci uomo che la meriti sul serio, che sappia raccogliere tanta grazia e tanta bellezza, farla sua e renderne giustizia. E pensi che da lei puoi aspettarti di tutto, anche che ami una donna. Anzi ti chiedi perché adesso ti stupisca. Lei può. Semplicemente può.
A quel punto cerchi un contatto intimo, il più intimo che tu possa avere, ormai hai raggiunto la meta, non sei lì per perdere tempo tra preliminari e scherzi vari, ma lei te lo vieta. Ti scaccia, ti sorride, la fibbia, il cuoio sulla pelle, sul petto. Un marchio che non significa niente, la voglia di fare del male. Una luce nello sguardo, la soddisfazione di una vaga ribalta là dove la desolazione assume i colori del cielo e si confonde in un cerchio di luce tra la sclera e la pupilla. Un gelo artico intangibile.
Ed è quello il primo momento in cui tu la guardi negli occhi, ti riscopri in quello sguardo azzurro come il mare alle prime luci del mattino, una promessa di tempesta malcelata. E’ capace di far voltare la testa a tutti solo per i suoi occhi, talvolta ti chiedi se quel colore è naturale o è un trucco del mestiere, ma la sua bellezza rasenta la perfezione, per cui qualunque sia la verità non ha importanza.
I capelli sono un manto di seta nera, vellutato sulla pelle. Alle volte vorresti sfiorarli, immergere le dita, nuotarci, tastarne la consistenza e la morbidezza, ma con lei tutto è un gioco e il tempo è la prima regola. Il tempo è sempre stato denaro e lei non risparmia nulla a nessuno. Sarà quel dubbio di cui ti pentirai quando infine rimarrai solo, lo sai e l’accetti come condanna.
Ti concentri sulle labbra, la sua bocca è perfetta. Vorresti baciarla, ma ha chiarito la situazione sin dall’inizio: bacia solo chi ama. Ti scoccia parecchio, ma puoi accettarlo. Puoi accettarlo in cambio di altro, benché con un moto di invidia ti chiedi chi sia quella donna di cui hai già scordato il nome che ha carpito le sue attenzioni. La domanda più scontata è dove sia in quel momento, se in fondo non sia un’altra come lei.
Ma è proprio lei a distrarti, piega il collo offre la giugulare. La tua bocca non potrà andare più in alto di così, è un monito. Ma non ti interessa. I convenevoli sono giochi per bambini che possono permetterseli, la tua è una sfida ben più pericolosa.
Arrivi a perderti tra le sue forme quasi senza accorgertene. I capezzoli scuri, neri nella luce soffusa, come ricordi di sangue caduto, una verginità stuprata, ma talmente morbidi al tatto che l’idea di baciare, mordere, stringere, è quanto di più naturale la tua mente possa concepire.
La schiena si inarca in risposta e sembra di averla davvero, ma quando provi ad abbracciarla lei si ritrae, riscende tra i guanciali, tira i capelli e sulle sue labbra sempre un sorriso. Potresti cominciare ad odiarlo. E poi pentirtene quando ti spinge sempre in più in basso, verso il ventre piatto, latteo come la pelle di un bambino, diafano. Una bambola di cera.
Ha un piercing all’ombelico. D’oro, con un brillante in cima. Una smorfia. Il suo cinismo. Lei non merita di meno, lo sanno tutti. Affondare la lingua in quella conchiglia, creare un attrito umido, leggero, sulla pelle, sotto le dita, come un brivido freddo, è morire tra le onde di un mare che sovrasta, acceca e arde ogni centimetro della tua pelle in morse concentriche che si rinfrangono le une contro le altre.
La presa sui fianchi è rigida, sofferta. Diviene violenta, animale. Primordiale come non ricordi di essere mai stato in vita tua. Ma è un bisogno che parte dallo stomaco, forse da più in basso, quello di conoscere ogni centimetro della cute nivea tra le dita. Neve pallida al mattino.
Continuare a discendere, caduta libera verso il nulla, è una sfida mortale, perché da allora non potrai più tirarti indietro. E il suo odore di donna ti investe con una carica esplosiva che annebbia i sensi, li cancella. Ubriaco di sesso e di emozioni, il sangue fluisce nelle vene, l’adrenalina nella profondità del tuo respiro, il sudore sulla fronte. In quell’istante, qualcosa muore.
Anneghi la lingua dentro di lei, i tuoi sensi tutti impegnati a cercar di discernere il suo sapore, quella fragranza viscosa e salata che ha distrutto il senno a tutti. E sai che è un frutto che hanno morsi in troppi: i tuoi denti lasceranno segni che già prima erano presenti, la tua lingua traccerà scie già vissute, e non sei il primo, e non sarai l’ultimo. Il senso di possesso ti si sgretola tra le dita, rivelando in pieno il suo squallore. Il tuo. Di tutto.
Non più pathos, non più amore. Il gioco di seduzione è una sfida tra innamorati, una conquista con vincita incerta. Investi emozioni, guadagni sentimenti. Se investi denaro, il gioco è fallito. E non ha più senso tenerlo in piedi, non ha più senso assistere alla danza di cavalieri e dame che da tempo dimenticarono l’innata cortesia.
Il tuo sguardo è quello di un uomo, uno dei tanti. E’ lo sguardo di tutti. Lo riconosce, lo intuisce ed è in quell’istante che comincia a giocare la sua partita. Non conosci le sue regole, non te le ha spiegate. Tu vai per le tue.
E’ una lotta a chi riesce a farsi più male, le unghia, i denti nella tua carne, ogni centimetro porterà il suo marchio. E tu vuoi imprimerle il tuo, segnarla indelebilmente, così l’abbracci, stringi. E adesso è guerra. Un letto, un tonfo e nella penombra della camera risuona soltanto l’urlo di fianchi contro fianchi che sbattono tra loro, di mani che si cercano e rifuggono, ansiti, lingue che lambiscono frammenti di pelle ignota, il suono di carne che taglia altra carne.
Così semplicemente potresti aver vinto, potresti averlo fatto davvero, ma un ronzio ti attraversa il cervello, come il cigolio fastidioso di una fontana che stilla gocce su gocce su croste di ruggine. Le sgretola come brividi di freddo lungo la spina dorsale. Ed è un ronzio che uccide.
Sai che lo sente anche lei, perché ti sorride di un sorriso caustico, logorante. Puoi prenderla, pagarla, fotterla come ti pare, ma non sarà mai tua. Non la prenderai mai davvero, qualunque cosa tu faccia. Non era bagnata, non lo era per niente. Stai giocando da solo.
Rovescia le posizioni in quell’unico istante di lucidità in cui ti chiedi perché hai rifuggito il buio della tua stanza, se non fosse stato meglio, se non ti avesse accolto con più forza. Se non era meglio amarsi al sicuro delle mura di arroganza costruite non guardando in faccia nessuno, anziché essere amato.
Si allontana da te, la sua lingua sulla tua pelle, sulla carne viva capace di scoppiare tra la sue labbra. Ti conosce meglio di quanto tu sappia di te stesso, perché sa esattamente dove premere, quali nervi toccare per ucciderti, ubriacarti dell’alcolico più forte, margherita aspra su pelle provata. Sale, limone e scarnifica la piaga. Poi tutto giù in un sorso.
E’ eroina che entra nelle vene e devasta tutti i sensi. A caldo. E brucia, assuefa. Un grammo di coca di troppo aspirato con un foglio di carta arrotolata e una cifra scritta sopra. Il cervello sballato, il setto nasale andato, ma i tuoi sensi sono più vivi che mai. O forse ti stanno trascinando lungo una morte che accoglieresti a braccia aperte ora.
Non lo sta facendo per te, non fa niente per nessuno, lo fa solo per se stessa. E per renderti un burattino nelle sue mani. Scivola su di te, il movimento è fluido adesso, ma violento. Rapido. Non sprecherà con te un secondo più del dovuto. Guerriera indomita di mille battaglie affrontate, una corsa contro il proprio destino sul dorso di un destriero ignoto.
Ti lega, ti morde. Il busto, le gambe, il petto segnato. E frusta quando saresti disposto a fare qualunque cosa per lei, in quell’istante per cui tutto il resto perde senso e che il mondo ti giri intorno non mi importa affatto. Ma non te lo concede, non in quel modo. Si ritrae, ti rifugge, e ti rivuole in bocca. Perché non l’avrai altrimenti.
Ruggisci, tigre rinchiusa in una gabbia di sensi annebbiati. Il sangue pulsa veloce, lo senti, nelle braccia, nel polsi, nelle orecchie. Ha il suono di mille tamburi che anticipano l’attacco finale, l’urlo indomito che esploderà tra le tue labbra.
Ed esplode. E tu esplodi, ti liberi dalle catene di frustrazione tra cui ha costretto il tuo spirito ribelle. Il tuo grido, i tuoi spasmi di muscoli tremanti convulsi, il sudore che ti imperla la fronte, il mento e lo sterno, sono nettare tra le sue labbra, ambrosia degli dei. Ed il fiele che gli uomini diedero da bere al Cristo.
Eppure non si lascia sfuggire niente di quell’istante di debolezza che le mostri, ti guarda, ti sente, ti tocca, ti annusa. Sembra volerti assorbire in tutti i tuoi fluidi, e vuole le tue lacrime, e vuole il tuo sangue, e vuole qualunque cosa tu sia disposto a darle.
Quando si separa da te, sei distrutto, esausto. Pulito come quando ancora non avevi bussato alla sua porta. E’ stata la battaglia più sofferta che tu abbia affrontato e non credi di esserne uscito vincitore. E la rifaresti anche subito.
Ma lei è già lontana. Lontana da te, da quel letto, appoggiata alla finestra, fuma e ti guarda. Ti guarda e sorride.
In quel momento non sai perché, non lo sai davvero. Ma il tuo tempo è finito, questo ti è ben chiaro. E’ andata, hai perso. Paghi. Ed è l’alba di un nuovo giorno quando esci fuori all’aria aperta e ti avvolgono gli ultimi drappeggi di notte.
Non saprai mai il suo nome, non lo saprà mai nessuno. Né nessuno saprà per chi farà scemare il suo sorriso, a chi mostrerà uno sguardo sincero. Non si lascerà mai vedere da te davanti ad uno specchio, nuda nel corpo e nell’anima, una smorfia sulle labbra, gli occhi di una donna sconfitta.
Non lo farà perché allora sarebbe troppo facile capire chi è che davvero, che solo ama. Sarebbe bastato leggere, guardarla e farlo davvero.
Ma tu cammini per la tua strada, ormai, e nonostante tutto non ti volterai indietro.
L’eco del pianto di una bimba alle tue spalle, ma alla fin fine non te ne frega niente

2 commenti:

  1. Grazie per la condivisione. E 'stata una condivisione molto utile. Video

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  2. Grazie per la condivisione. E 'stata una condivisione molto utile. Video

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