Il presente racconto è arrivato secondo al Premio Internazionale di Narrativa "ABICIZETA" 2011
di Roberta Orlando
È la più bella della città, forse è la più bella di tutto
il Paese. La conoscono tutti, tutti la rispettano. Chi disprezza, poi,
figurarsi: compra.
Le donne la invidiano. Quando la guardano storcono il naso
e intanto si chiedono se quei vestiti le siano cuciti addosso o se quella donna
abbia davvero le grazie di una dea qualunque cosa indossi.
È una questione di gesti, di movimenti. Del modo in cui
porta i tacchi, del passo fluido, leggero, che mantiene, come se scivolasse tra
la folla, melma da cui liberarsi e cercare di uscirne quanto più puliti
possibili. E non se ne è mai troppo.
Lei è fatta così: può camminare nuda o sfoggiare l’abito
da monaca, ma dietro di sé lascia sempre una scia di eleganza e sensualità. Ed
è la sensualità di una madre, la madre di tutti, la sorgente di vita. Di gioia
e di male.
O forse è una grinta di pura trasgressione, una ferita
aperta, il sangue che piange su trascorsi malcelati, promesse infrante come
vetri scheggiati; è la trasgressione di chi uccide e nel suo specchio trova
mille riflessi. Può porsi in mille maniere diverse, può indossare una maschera
differente per ogni giorno della sua vita, volto di ceramica costruito con
sudore e dipinto a mano, ma in lei qualcosa non smette mai di abbagliare.
Gli uomini l’adorano. Un desiderio morboso, il più
ossessivo tra tutti. Sono assoggettati alla sua bellezza, bacerebbero la terra
su cui cammina, le leccherebbero la suola delle scarpe se solo lei lo
chiedesse. E lei lo chiede, lo chiede spesso, con un sorriso che pretende tutto
ma nulla vuole, e in quel momento esige che tu la guardi in faccia. Occhi negli
occhi, l’eco lontano di un canto di note stonate, ultimo baluardo tra bandiere
cadute.
Non devi mai perdere il senso della realtà, non con lei,
devi guardarla in faccia, esser cosciente delle tue azioni, sentirle sulla
pelle, in bocca, tra la lingua e il palato, là dove sei senza difese,
rigirartele tra la saliva e poi ingoiare. Tutto. Perché tutto va giù, dentro
ove anche la coscienza è buia, in bocca resta solo il sapore acre, sporco, ma
poi anche questa è andata.
Così non ti perdi, così sei ancora te stesso, il tuo nome
è ancora il tuo. Fosse l’ultima cosa che ti rimane ma quel nome è sacro, ti
caratterizza e tu solo sai cosa significa. Ogni lettera è sacra, un crocifisso
che non ha perso la sua fede.
E lei un nome non ce l’ha. O se lo ha, nessuno lo conosce.
Forse l’ha pronunciato qualche volta, ma nessuno le ha creduto. Altri
raccolgono le sue parole come oro colato e pensano che un giorno lei si chiami
Vanessa, un altro ancora Maria, poi Jessica, poi Carlotta e poi chi lo sa.
Lei ha il nome che vorresti gridare quando ti rigiri nelle
lenzuola, quando rientri nella tua quotidianità e ti ferisci pensando ai
momenti di sogno che ti ha strappato e sbattuto in faccia, i cui contorni hanno
ancora segni di graffi sulla schiena.
Lei ha il nome che mormori mentre con una mano ti appoggi
alle piastrelle della doccia e con l’altra ti accarezzi e riscopri quei punti
di te di cui non ricordavi sensibilità. Ti sfalda i nervi con attacchi
violenti, sono colpi di cannoni contro pareti di carta le sue unghia.
Moriresti pur di sapere qual è il suo nome. Lo urleresti
mentre ti muovi agitato, il corpo sudato, le membra tese fino allo spasmo. Le
mani rigide ai lati di un cuscino, movimenti fluidi, più lenti, violenti.
Veloci. Sofferti. Le palpebre chiuse e il suo volto davanti agli occhi. E
sapere che stai rischiando, perché dopo di lei non può venire nessuno.
Lei è una tigre, quando la avvicini ferisce, graffia.
Senti gli artigli lacerarti la carne, comincia con un tocco leggiadro,
innocente all’apparenza, e ti prende quando meno te lo aspetti.
All’inizio è una pressione leggera, come una carezza, ma
lei non conosce gesti d’amore. Così affonda, giù nel tuo corpo, ti penetra,
dove sa che farà male, dove sa che ti segnerà. Perché lei ti vuole marchiare,
vuole rovinarti, vuole farti capire cos’è il dolore e imprimertelo sulla pelle.
Quel dolore, sangue che scioglie grumi di altro sangue
versato, è l’unica cosa che ti darà, l’unica che non dovrai pretendere, ma che
ti regalerà il suo sorriso. E il tuo dorso si dipinge come una scacchiera dalle
mattonelle rosse e bianche. Vita e morte. Avanza la regina, arrocca il re.
E rimani incastrato lì, tra la torre e la schiera di tre
pedoni che ti proteggono, perché quando lei ti guarda negli occhi, quando ti
sfiora al suo passaggio, per giorni non puoi avvicinarti più a niente, più ad
un’altra persona. Restano i segni, restano le cicatrici e nessuno capisce quali
sono le più profonde. Le tue, le sue. Le urla che hanno tagliato il vento
quando eri troppo sordo per sentirle.
Non saprai mai quali faranno più male, quali si
riapriranno quando ti piegherai sul dorso, le braccia strette al petto, gli
occhi semiaperti velati dal ricordo di un momento di follia, un momento pagato
come oro gettato. Forse non te lo potevi permettere, forse è sbagliato. E’ la
cazzata che negherai anche in tribunale giurando sulla vita di tua madre e di
tuo padre, le negherai tra le lenzuola quando pronuncerai un ‘ti amo’ vuoto,
perché il tuo sguardo sarà troppo vigile e attento, per accorgerti della
pienezza delle parole tra le tue labbra. La negherai a te stesso, ed è ironico,
perché se devi proprio accompagnare i bimbi a messa, troverai da qualche parte
la forza di farti il segno della croce. Ti assolvo, amen.
È questo l’effetto che fa. Lei devasta. Lo dicono tutti,
ma non ci credi finché non provi. A volte è un bisogno, altre solo un gioco.
Fai la tua puntata, poi non tirarti indietro.
Lei non lo fa. Non si ritira mai. Ti accoglie sulla porta
sempre con una sigaretta in bocca, e il suo modo di portarsi la cicca alle
labbra ti fa ribollire il sangue nelle vene, aguzzare lo sguardo, flettere la
schiena in avanti. E’ un movimento impercettibile di cui ti accorgi solo quando
realizzi di non poter smettere di fissarle la bocca, quella bocca che è peccato
e acqua santa, è il canto della sirena che ti ucciderà, è l’urlo dell’angelo
che si sacrificherà per te.
Non ti chiede niente. Lei non fa domande. Sa quello che
vuoi, sa ciò che vuoi da lei, ma non è disposta a rivelarti i suoi di pensieri.
Non cede, tergiversa con sorrisi ironici o commenti salaci. Altre ancora, le
sue parole si perdono tra gemiti soffocati che hanno il suono di una poesia
costruita con versi su versi sbagliati. Non una parola giusta in una sinfonia
di urla soffocate.
Lei la conoscono tutti. Tutti sanno qual è l’odore della
sua pelle, la profondità del solco tra i suoi seni. La conoscono da basso,
conoscono le sue gambe accavallate, la curva del ginocchio, la flessuosità del
polpaccio.
Impari il suo aspetto partendo dallo smalto nero del
piedi, su ogni unghia un ideogramma dipinto in un grigio perla, forse cinese,
forse coreano. Non ha mai svelato il significato. Magari qualcuno non glielo ha
chiesto.
Poi la caviglia velata. Non si leva mai le scarpe: un paio
di sandali dorati alla schiava, tacco dodici. Le slanciano la vita, le cosce.
Il fondoschiena è quello di una dea greca. A seguire vengono le gambe, le
cosce. Ha un tatuaggio vicino all’inguine. Delle lettere. Un nome. Della donna
che ama, dice.
È una notizia che sconvolge, perché anche in certi momenti
ti ricordi di morali, benché ben diverse dalla tua. Perché sei capace di
scagliare la pietra anche mentre condannano la tua di lapidazione. È un mordi e
fuggi, vince chi si fa meno male. E tuttavia nessuno esce mai veramente
incolume. La guerra conosce solo vittime.
Ma a pensarci realizzi che è giusto, che non può esserci
uomo che la meriti sul serio, che sappia raccogliere tanta grazia e tanta
bellezza, farla sua e renderne giustizia. E pensi che da lei puoi aspettarti di
tutto, anche che ami una donna. Anzi ti chiedi perché adesso ti stupisca. Lei
può. Semplicemente può.
A quel punto cerchi un contatto intimo, il più intimo che
tu possa avere, ormai hai raggiunto la meta, non sei lì per perdere tempo tra
preliminari e scherzi vari, ma lei te lo vieta. Ti scaccia, ti sorride, la
fibbia, il cuoio sulla pelle, sul petto. Un marchio che non significa niente,
la voglia di fare del male. Una luce nello sguardo, la soddisfazione di una vaga
ribalta là dove la desolazione assume i colori del cielo e si confonde in un
cerchio di luce tra la sclera e la pupilla. Un gelo artico intangibile.
Ed è quello il primo momento in cui tu la guardi negli
occhi, ti riscopri in quello sguardo azzurro come il mare alle prime luci del
mattino, una promessa di tempesta malcelata. E’ capace di far voltare la testa
a tutti solo per i suoi occhi, talvolta ti chiedi se quel colore è naturale o è
un trucco del mestiere, ma la sua bellezza rasenta la perfezione, per cui
qualunque sia la verità non ha importanza.
I capelli sono un manto di seta nera, vellutato sulla
pelle. Alle volte vorresti sfiorarli, immergere le dita, nuotarci, tastarne la
consistenza e la morbidezza, ma con lei tutto è un gioco e il tempo è la prima
regola. Il tempo è sempre stato denaro e lei non risparmia nulla a nessuno.
Sarà quel dubbio di cui ti pentirai quando infine rimarrai solo, lo sai e
l’accetti come condanna.
Ti concentri sulle labbra, la sua bocca è perfetta.
Vorresti baciarla, ma ha chiarito la situazione sin dall’inizio: bacia solo chi
ama. Ti scoccia parecchio, ma puoi accettarlo. Puoi accettarlo in cambio di
altro, benché con un moto di invidia ti chiedi chi sia quella donna di cui hai
già scordato il nome che ha carpito le sue attenzioni. La domanda più scontata
è dove sia in quel momento, se in fondo non sia un’altra come lei.
Ma è proprio lei a distrarti, piega il collo offre la
giugulare. La tua bocca non potrà andare più in alto di così, è un monito. Ma
non ti interessa. I convenevoli sono giochi per bambini che possono
permetterseli, la tua è una sfida ben più pericolosa.
Arrivi a perderti tra le sue forme quasi senza
accorgertene. I capezzoli scuri, neri nella luce soffusa, come ricordi di
sangue caduto, una verginità stuprata, ma talmente morbidi al tatto che l’idea
di baciare, mordere, stringere, è quanto di più naturale la tua mente possa
concepire.
La schiena si inarca in risposta e sembra di averla
davvero, ma quando provi ad abbracciarla lei si ritrae, riscende tra i guanciali,
tira i capelli e sulle sue labbra sempre un sorriso. Potresti cominciare ad
odiarlo. E poi pentirtene quando ti spinge sempre in più in basso, verso il
ventre piatto, latteo come la pelle di un bambino, diafano. Una bambola di
cera.
Ha un piercing all’ombelico. D’oro, con un brillante in
cima. Una smorfia. Il suo cinismo. Lei non merita di meno, lo sanno tutti.
Affondare la lingua in quella conchiglia, creare un attrito umido, leggero,
sulla pelle, sotto le dita, come un brivido freddo, è morire tra le onde di un
mare che sovrasta, acceca e arde ogni centimetro della tua pelle in morse
concentriche che si rinfrangono le une contro le altre.
La presa sui fianchi è rigida, sofferta. Diviene violenta,
animale. Primordiale come non ricordi di essere mai stato in vita tua. Ma è un
bisogno che parte dallo stomaco, forse da più in basso, quello di conoscere
ogni centimetro della cute nivea tra le dita. Neve pallida al mattino.
Continuare a discendere, caduta libera verso il nulla, è
una sfida mortale, perché da allora non potrai più tirarti indietro. E il suo
odore di donna ti investe con una carica esplosiva che annebbia i sensi, li
cancella. Ubriaco di sesso e di emozioni, il sangue fluisce nelle vene,
l’adrenalina nella profondità del tuo respiro, il sudore sulla fronte. In
quell’istante, qualcosa muore.
Anneghi la lingua dentro di lei, i tuoi sensi tutti
impegnati a cercar di discernere il suo sapore, quella fragranza viscosa e
salata che ha distrutto il senno a tutti. E sai che è un frutto che hanno morsi
in troppi: i tuoi denti lasceranno segni che già prima erano presenti, la tua
lingua traccerà scie già vissute, e non sei il primo, e non sarai l’ultimo. Il
senso di possesso ti si sgretola tra le dita, rivelando in pieno il suo
squallore. Il tuo. Di tutto.
Non più pathos, non più amore. Il gioco di seduzione è una
sfida tra innamorati, una conquista con vincita incerta. Investi emozioni,
guadagni sentimenti. Se investi denaro, il gioco è fallito. E non ha più senso
tenerlo in piedi, non ha più senso assistere alla danza di cavalieri e dame che
da tempo dimenticarono l’innata cortesia.
Il tuo sguardo è quello di un uomo, uno dei tanti. E’ lo
sguardo di tutti. Lo riconosce, lo intuisce ed è in quell’istante che comincia
a giocare la sua partita. Non conosci le sue regole, non te le ha spiegate. Tu
vai per le tue.
E’ una lotta a chi riesce a farsi più male, le unghia, i
denti nella tua carne, ogni centimetro porterà il suo marchio. E tu vuoi
imprimerle il tuo, segnarla indelebilmente, così l’abbracci, stringi. E adesso
è guerra. Un letto, un tonfo e nella penombra della camera risuona soltanto
l’urlo di fianchi contro fianchi che sbattono tra loro, di mani che si cercano
e rifuggono, ansiti, lingue che lambiscono frammenti di pelle ignota, il suono
di carne che taglia altra carne.
Così semplicemente potresti aver vinto, potresti averlo
fatto davvero, ma un ronzio ti attraversa il cervello, come il cigolio
fastidioso di una fontana che stilla gocce su gocce su croste di ruggine. Le
sgretola come brividi di freddo lungo la spina dorsale. Ed è un ronzio che
uccide.
Sai che lo sente anche lei, perché ti sorride di un
sorriso caustico, logorante. Puoi prenderla, pagarla, fotterla come ti pare, ma
non sarà mai tua. Non la prenderai mai davvero, qualunque cosa tu faccia. Non
era bagnata, non lo era per niente. Stai giocando da solo.
Rovescia le posizioni in quell’unico istante di lucidità
in cui ti chiedi perché hai rifuggito il buio della tua stanza, se non fosse
stato meglio, se non ti avesse accolto con più forza. Se non era meglio amarsi
al sicuro delle mura di arroganza costruite non guardando in faccia nessuno,
anziché essere amato.
Si allontana da te, la sua lingua sulla tua pelle, sulla
carne viva capace di scoppiare tra la sue labbra. Ti conosce meglio di quanto
tu sappia di te stesso, perché sa esattamente dove premere, quali nervi toccare
per ucciderti, ubriacarti dell’alcolico più forte, margherita aspra su pelle
provata. Sale, limone e scarnifica la piaga. Poi tutto giù in un sorso.
E’ eroina che entra nelle vene e devasta tutti i sensi. A
caldo. E brucia, assuefa. Un grammo di coca di troppo aspirato con un foglio di
carta arrotolata e una cifra scritta sopra. Il cervello sballato, il setto
nasale andato, ma i tuoi sensi sono più vivi che mai. O forse ti stanno
trascinando lungo una morte che accoglieresti a braccia aperte ora.
Non lo sta facendo per te, non fa niente per nessuno, lo
fa solo per se stessa. E per renderti un burattino nelle sue mani. Scivola su
di te, il movimento è fluido adesso, ma violento. Rapido. Non sprecherà con te
un secondo più del dovuto. Guerriera indomita di mille battaglie affrontate,
una corsa contro il proprio destino sul dorso di un destriero ignoto.
Ti lega, ti morde. Il busto, le gambe, il petto segnato. E
frusta quando saresti disposto a fare qualunque cosa per lei, in quell’istante
per cui tutto il resto perde senso e che il mondo ti giri intorno non mi
importa affatto. Ma non te lo concede, non in quel modo. Si ritrae, ti rifugge,
e ti rivuole in bocca. Perché non l’avrai altrimenti.
Ruggisci, tigre rinchiusa in una gabbia di sensi
annebbiati. Il sangue pulsa veloce, lo senti, nelle braccia, nel polsi, nelle
orecchie. Ha il suono di mille tamburi che anticipano l’attacco finale, l’urlo
indomito che esploderà tra le tue labbra.
Ed esplode. E tu esplodi, ti liberi dalle catene di
frustrazione tra cui ha costretto il tuo spirito ribelle. Il tuo grido, i tuoi
spasmi di muscoli tremanti convulsi, il sudore che ti imperla la fronte, il
mento e lo sterno, sono nettare tra le sue labbra, ambrosia degli dei. Ed il
fiele che gli uomini diedero da bere al Cristo.
Eppure non si lascia sfuggire niente di quell’istante di
debolezza che le mostri, ti guarda, ti sente, ti tocca, ti annusa. Sembra
volerti assorbire in tutti i tuoi fluidi, e vuole le tue lacrime, e vuole il
tuo sangue, e vuole qualunque cosa tu sia disposto a darle.
Quando si separa da te, sei distrutto, esausto. Pulito
come quando ancora non avevi bussato alla sua porta. E’ stata la battaglia più
sofferta che tu abbia affrontato e non credi di esserne uscito vincitore. E la
rifaresti anche subito.
Ma lei è già lontana. Lontana da te, da quel letto,
appoggiata alla finestra, fuma e ti guarda. Ti guarda e sorride.
In quel momento non sai perché, non lo sai davvero. Ma il
tuo tempo è finito, questo ti è ben chiaro. E’ andata, hai perso. Paghi. Ed è
l’alba di un nuovo giorno quando esci fuori all’aria aperta e ti avvolgono gli
ultimi drappeggi di notte.
Non saprai mai il suo nome, non lo saprà mai nessuno. Né
nessuno saprà per chi farà scemare il suo sorriso, a chi mostrerà uno sguardo
sincero. Non si lascerà mai vedere da te davanti ad uno specchio, nuda nel
corpo e nell’anima, una smorfia sulle labbra, gli occhi di una donna sconfitta.
Non lo farà perché allora sarebbe troppo facile capire chi
è che davvero, che solo ama. Sarebbe bastato leggere, guardarla e farlo
davvero.
Ma tu cammini per la tua strada, ormai, e nonostante tutto
non ti volterai indietro.
L’eco del pianto di una bimba alle tue spalle, ma alla fin fine non te
ne frega niente
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